La leggenda del mitico formaggio dei pizzoccheri e la storia delle sue Valli. Ecco l’affascinante racconto di Patrizio Del Nero, che ha raccolto questa incredibile storia in una notte di novembre, da personaggi davvero “speciali”. Ancor oggi nelle Valli del Bitto, nelle notti buie, dai boschi proviene la voce del vento che racconta questa storia. Ma solo in pochi possono capirla, solo quelli che hanno ancora un cuore selvatico.
“Un giorno vi ricorderete di me”, con queste parole la vecchia vestita di stramaglie si dileguò nel bosco senza mai più farsi vedere. Il pastorello che udì quella sorta di monito corse all’impazzata verso la piccola baita di pietra che si trovava poco sotto, nell’alpeggio in cima alla Valle, per unirsi agli altri che accudivano le mucche.
Al suo arrivo, bianco in volto dalla paura, un po’ balbettante, i pastori lo aiutarono a calmarsi, lo fecero sedere attorno al fuoco al centro della baita con il tetto di legno e di rami d’albero e gli diedero un po’ d’acqua.
Per ben tre giorni il “càscin”(giovane pastore) non riuscì a parlare e i pastori non riuscivano a capire cosa potesse essergli successo. Infatti, per quattordici notti e quindici giorni il pastorello era rimasto con le poche capre nella parte più alta della vallata, a contatto con il cielo, per cogliere l’erba più pregiata che, facendola derivare dall’alpeggio chiamato nella lingua locale “mut”, era conosciuta come mutolina.
Il sole estivo riscaldava le giornate dei pastori tra le Alpi e la notte, sebbene portasse con sé il fresco di quota, era sopportabile. Dalle cime della vallata si vedeva all’orizzonte una grande macchia d’acqua alimentata da un corso che divagava nella pianura del fondovalle. Pochissime erano le abitazioni di pietra e di legno che si potevano scorgere poiché il fondovalle era molto acquitrinoso e la gente preferiva abitare a ridosso delle montagne o, ancor meglio, sulle montagne stesse.
La notte era illuminata solamente dal chiarore della luna e delle stelle, nessun’altra luce spezzava questo incanto, così che il buio sembrava protetto. Proprio per questo il paesaggio era magico. Nelle notti senza le stelle e la luna, la Valle era invisibile, imperscrutabile, ad un certo punto sembrava che non esistesse nemmeno. Il buio era impenetrabile e la vita si fermava, nemmeno il canto di un fringuello di quota o di qualche grillo notturno. Solo lo scorrere dell’acqua sui sassi ricordava che c’era qualcosa che non si era fermato, un po’ come il cuore, che anche mentre si dorme continua a pulsare. Il pastorello di nome Eriu viveva a contatto con questa solitudine, dormendo al riparo da una roccia sotto la quale aveva ricavato un giaciglio. Si coricava poco dopo il tramonto del sole che poteva ammirare da quella splendida postazione e si alzava alle prime luci dell’alba. La prima stella sorgeva proprio appena sopra il suo rifugio, e decise di chiamarla “la dì”, il giorno, o ancor meglio il buongiorno. Solo secoli dopo si scoprì questa curiosità linguistica, quasi a precedere il divino poeta della commedia.
Eriu era il nome dato dal padre al pastorello. Nell’anno della sua nascita, avvenuta nel cuore dell’inverno nella baita riscaldata dalle mucche mentre nevicava, il padre aveva incontrato durante la stagione estiva in alpeggio, un cacciatore venuto da lontano che pronunciava due sole parole, e una di queste era appunto Eriu.
Il Bambin Gesù doveva attendere ancora tre secoli prima di nascere nella stalla di Betlemme. I pastori e i cacciatori delle montagne regolavano la loro vita con il tempo della luna e del sole, e ad essi si rivolgevano per chiedere prosperità per i lavori della terra e abbondanti cacciagioni.
Nabìr era il nome del fratello maggiore di Eriu. La curiosità di questa famiglia è costituita dai nomi dei loro figli, mentre di quelli dei genitori nulla si sa ancor oggi. Il padre attribuiva i nomi in relazione a particolari circostanze. Nell’anno del concepimento del primo figlio era stato accompagnato per lungo tempo da un terribile raffreddore, causato da un’estate non molto favorevole perché sempre piovosa. Il bambino nacque proprio sul finire dell’estate, con il raffreddore ancora in corso, e l’umore viscoso che usciva dal naso rendeva nervoso e irascibile il povero pastore.
Quando dopo molte lune nacque il terzo figlio, la stagione estiva era agli inizi. Il sole era alto nel cielo, ma tutto d’un tratto si alzò un forte vento e le nuvole riempirono in men che si dica il cielo, cariche di acqua e illuminate da lampi e da tuoni fragorosi che rimbombavano nella vallata, e si scatenò un grande temporale. La madre nella baita cominciava ad avere le doglie, e così venne alla luce piangendo “sbèrlusc”.
Ma la famiglia del pastore doveva ancora completarsi e diverse stagioni dopo, mentre stava accudendo la cascina delle castagne, soddisfatto per la buona stagione estiva e per l’abbondante raccolto, alla madre che sistemava il piccolo fuoco, impedendo che si ravvivassero le fiamme per essiccare così le castagne, nacque “puiàt”, il quarto e ultimo figlio.
Erano passati tre notti e tre giorni dal monito della “strana figura”, venuta a trovarlo lassù tra le capre, quando Eriu riprese a parlare e raccontò ai pastori il suo incontro.
Fonte: vallidelbitto.itm – Foto: Credits flavioturchet.com
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